Il perimetro dell’autonomia scolastica tra centralismo ministeriale ed autonomia regionale
Editoriale di Ivana Summa
Le urgenze e le emergenze periodiche e quotidiane che attraversano le nostre scuole e l’abituale frenesia decretativa che da sempre caratterizza il Ministero dell’istruzione impediscono ai docenti e dirigenti scolastici di dedicare la dovuta attenzione e la conseguente riflessione alle riforme di carattere generale che riguardano anche il sistema scolastico e le potenzialità della propria specifica autonomia. Con riguardo alle prime – che si riferiscono spesso ad aspetti di carattere prevalentemente amministrativo, come trasparenza, privacy, anticorruzione, acquisizione di beni e servizi - qui evidenziamo l’attualità della legge 26 giugno 2024, n. 86 recante disposizioni per l'attuazione dell'autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell'articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Si tratta della cosiddetta legge Calderoli che, come ci suggeriscono ben due contributi pubblicati in questo numero – quello di Anna Armone e di Giancarlo Sacchi – mette in gioco diritti costituzionalmente protetti (salute ed istruzione) e le risorse per poterli garantire a tutti e nella stessa misura. Proprio la rilevanza di tali diritti, riconosciuti come fondamentali dalla nostra costituzione, ci fa comprendere perché questa legge ha stabilito che occorre prima determinare i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) e poi avviare la procedura per eventualmente conferire maggiore autonomia alle regioni che lo richiedano. La lettura di questi due contributi ci consente di dare uno spessore storico-giuridico alla questione dell’autonomia e, di conseguenza, di comprendere che essa è incardinata nel disegno della struttura costituzionale. Gli stessi contributi, tuttavia, non azzardano previsioni sullo stesso destino della legge n. 86/2024 anche in considerazione che la Legge costituzionale n. 3 del 2001 non si è mai realizzata.
Se questo è il quadro istituzionale -senza sottovalutare l’attuale contesto politico entro cui si colloca la legge Calderoli – sorge spontanea (meglio, dovrebbe sorgere spontaneamente) la domanda seguente: che fine farà l’autonomia scolastica? Prima di rispondere, però, dobbiamo fare alcune considerazioni che riguardano tutte le scuole che, ormai da 25 anni, operano in regime di autonomia scolastica. Ma con quali cambiamenti le singole istituzioni scolastiche autonome in tutti questi anni hanno davvero dovuto fare i conti e che ruolo hanno avuto, di contro, le rilevanti mancate innovazioni di sistema che avrebbero dovuto garantire un nuovo modello organizzativo? A ben vedere, l’unico rilevante cambiamento è stato l’attribuzione della dirigenza ai capi d’istituto che, da quel momento, obbligati a svolgere tutte le molteplici e rilevanti funzioni dei dirigenti delle pubbliche amministrazioni, hanno dovuto rinunciare – più o meno malvolentieri – alla funzione di leadership educativa. I docenti, a loro volta, hanno percepito questo nuovo ruolo come una funzione fortemente burocratica, anche se l’enfasi sul preside-manager era molto diffusa almeno fino a quando è spuntato il preside-sceriffo con la legge 107/2015. Nulla si è realizzato in riferimento alla riforma degli organi collegiali della scuola, blindati nella riserva di legge prevista dall’art. 21 della legge n. 59/1997, né sull’”articolazione della funzione docente” prevista dal comma 16 della citata legge. A tutto ciò è necessario aggiungere l’immutato atteggiamento ministeriale che è proseguito adottando politiche non di incoraggiamento dell’autonomia, bensì di pressanti orientamenti pedagogici e didattici inevitabilmente invasivi sia della libertà di insegnamento che dell’autonomia degli istituti scolastici. Infine, non si può tacere sul fatto che la gestione delle risorse umane- docenti e personale ATA- è rimasta in capo al Ministero e, soprattutto, è rimasta rigida: configurazione degli istituti scolastici autonomi molto diversi tra di loro per numero di alunni, di plessi scolastici e di comuni coinvolti, turn over fortissimo del personale docente, precarietà del rapporto d’impiego, frammentazione delle cattedre, modalità di formazione e reclutamento dei docenti, orario di lavoro extra-cattedra…Ancora una volta, si è realizzato un cambiamento gattopardesco: cambiare tutto per lasciare tutto com’è.
A nostro giudizio, con l’autonomia le scuole non hanno avuto le ali dell’innovazione – che è l’unico modo per esercitarla efficacemente - e ciò è paradossale se si pensa che le scuole, con il DPR n. 275/99, godono dell’autonomia didattica, organizzativa e di ricerca, sperimentazione e sviluppo. Più sopra abbiamo accennato sommariamente alle cause strutturali e di sistema di questa sorta di “impotenza innovativa” da parte della stragrande maggioranza delle scuole, ma il contributo di Eva Nicolò ha il pregio di fare un’analisi proprio dall’interno delle comunità scolastiche, domandandosi “quali siano le criticità che impediscono la piena realizzazione delle attese dell’autonomia scolastica e individuare i fattori che vanno valorizzati per sviluppare appieno tutte le opportunità dell’autonomia. Tra le questioni più spinose … c’è senza dubbio il sovraccarico amministrativo dovuto alla delega di tutte le funzioni amministrative. Sebbene il passaggio al regime di autonomia avrebbe, secondo il dettato normativo, dovuto prevedere una analisi delle realtà territoriali, sociali ed economiche delle singole istituzioni scolastiche per l'adozione dei conseguenti interventi perequativi, in realtà il carico di lavoro amministrativo che quotidianamente le scuole devono fronteggiare è delicato quanto gravoso”. Così, nonostante l’autonomia didattica ed organizzativa consenta di adottare modalità organizzative ed interventi didattici in grado di migliorare l'offerta formativa”, la rigidità organizzativa la rende quasi sempre impraticabile. Infine, l’autrice, dirigente scolastica, sottolinea il complicato rapporto con gli enti locali perché “nelle regioni del Sud, l’implementazione dell’autonomia incontra sfide significative legate alle disparità socio-economiche, infrastrutturali e culturali che comportano il rischio di accrescere l’iniquità del sistema accentuando il divario tra le scuole”.
E, con quest’ultima riflessione, ritorniamo al punto di partenza: cosa succederà con l’avvento dell’autonomia prevista dalla legge 86/2024? A nostro parere, tutto dipenderà dall’incontro tra le capacità propositive delle singole regioni e le politiche innovative delle singole scuole che, se non organizzate istituzionalmente in reti, non possono avere lo stesso potere contrattuale. Il contributo di Anna Armone esplora proprio quest’ultimo aspetto che- è bene sottolinearlo – sarà il punto più critico e, infatti, l’autrice afferma: L'istruzione è così importante nella discussione sull'autonomia perché rappresenta un elemento identitario dell'unità nazionale che dovrebbe garantire un'offerta formativa dello stesso tipo e dello stesso livello su tutto il territorio nazionale. Le nuove competenze regionali dovrebbero aggiungersi più che sostituire quelle che sono già garantite dallo Stato.
E ciò- aggiungiamo noi – produrrà disuguaglianze, peraltro già presenti, che potrebbero virtuosamente incentivare scuole e regioni a realizzare offerte formative sempre migliori. Ma questo lo lasciamo nel mondo dei sogni!
Facciamo qualche breve cenno ad alcuni contributi e, innanzitutto, a quello di Nicoletta Morbioli che, a proposito di una ricerca realizzata in Veneto sul funzionamento dei CPIA, mette in evidenza come il funzionamento di queste importanti istituzioni dipenda dalla collaborazione fattiva degli enti locali che, spesso, trascurano ciò che sarebbe per loro obbligatorio.
Un esempio virtuoso di come sia possibile interpretare al meglio lo spirito dell’autonomia scolastica può essere letto nei due contributi sull’educazione civica: il primo, di Andrea Porcarelli, traccia il quadro generale delineato nelle nuove Linee Guida, evidenziandone limiti e potenzialità; il secondo contributo, di Fiorenzo Ferrari e Lara Spinozzi, rappresenta uno straordinaria interpretazione dell’autonomia scolastica perché non si limita ad applicare le Linee Guida riguardanti l’educazione civica, ma li utilizza come leva per dare protagonismo agli studenti, mettendoli in condizione di esercitare concretamente la cittadinanza all’interno delle mura scolastiche: “gli studenti diventano protagonisti di quella che Dewey chiamava scuola attiva, dove sembra che ci sia una specie di disordine e invece c’è discussione e spirito critico”.