FARE L'insegnante n.6/2018 -2019

Rivista mensile di Formazione e Aggiornamento professionale e culturale per i docenti delle scuole di ogni ordine e grado

Editoriale di  Luciano Lelli  Direttore editoriale

1.Come è più che noto a tutti gli addetti ai lavori, la valutazione è impegno continuo (oggetto di studio e ricerca, preoccupazione, anche in non pochi casi ossessione) in ambito scolastico. Essa, per altro, è attività esercitata anche in svariati altri campi operativi: per esemplificazione mi riferisco alla valutazione, costantemente reperibile nei giornali, delle prestazioni dei calciatori (giudicate con voti numerici e giudizi verbali).

Nella scuola essa costituisce un processo ininterrotto di ampliamento/articolazione dei principi fondativi, delle metodologie di attuazione, della rilevanza funzionale ad essa attribuita: fino al vigente livello molto elevato di complessità al quale si è pervenuti, tale da non escludere l’alta opportunità di intervenire, da parte di tutti i corresponsabili della valutazione, per essenzializzarla, per far sì che essa sia valenza operativa imprescindibile, non formalistica, non troppo onerosa in fatto di concretizzazione, effettivamente capace di contribuire all’implementazione qualitativa del sistema scolastico nazionale.

2.È conoscenza diffusa che per un tempo assai espanso di funzionamento del sistema scolastico ha costantemente agito in egemonia, anzi in esclusività d’uso, la valutazione interna. Essa era (e ovviamente ancora è) responsabilità degli insegnanti erogatori del servizio formativo, circostanza che implica inevitabilmente qualche problematica di accettabilità funzionale, come sempre accade allorché chi dà corso a una prestazione è anche giudice inappellabile della pertinenza della stessa. Essa, per una molteplicità di decenni, ha avuto quali destinatari esclusivi gli allievi, essendo sorta di dogma che gli insegnanti,fossero gli esiti di apprendimento dei discenti di buona rilevanza o carenti, erano in ogni caso“al di sopra di ogni sospetto”.

Ancora, la valutazione interna tradizionale, della quale sto tratteggiando alcune caratteristiche, aveva tipologia prettamente individualistica (con diffusa natura impressionistica, cioè era alquanto condizionata dalle impressioni di superficie espresse dai docenti nella loro relazione didattica con gli allievi); nei casi di certo non infrequenti di rilevante professionalità degli insegnanti, essa operava in forma di intuizione, cioè a dire di percezione immediata delle specificità di apprendimento, senza ricorso a particolari strumentazioni di apprezzamento; derivava inoltre, nelle sue manifestazioni, da criteri nettamente soggettivi, spesso di non agevole intendimento da parte di studenti e loro genitori.

Essa costantemente si avvaleva di strumenti rilevativi codificati e raramente messi in discussione, strumenti che tuttora sostanziano la valutazione privilegiata da molti docenti (mi riferisco in specie alle cosiddette interrogazioni - termine che inevitabilmente rinvia a atteggiamenti inquisitori e quasi polizieschi - e ai compiti in classe, per generazioni e generazioni di studenti vere e proprie prove cruciali, da evitare quando la sottoposizione ad esse non era proprio imprescindibile, indispensabile per il proseguimento formale del percorso di istruzione).

Il tipo di valutazione qui schizzato nelle sue apparenze più evidenti subiva largamente l’influsso di due effetti, il Pigmalione (per il quale la previsione formulata dall’insegnante riguardo agli sviluppi formativi di un alunno ha un esplicito e diretto influsso sulla configurazione degli stessi e comunque sul giudizio concernente la loro caratura, “previsione che si avvera”) e l’effetto alone, definibile come condizionamento per incidenza del quale una considerazione parziale, di verso positivo o negativo, tende ad estendersi alla totalità delle manifestazioni di ogni soggetto.

Infine, quando la valutazione interna è protagonista indubitabile, nella maniera attuativa codificata e sedimentata da assai protratta durata, si dà quasi senza scampo una separatezza sostanziale tra la medesima e le azioni di insegnamento, intervenendo per lo più la stessa a posteriori, non per porre in discussione la pertinenza dell’insegnamento bensì per misurare se e come gli allievi hanno introiettato nelle loro menti lo stesso.

Con la messa in evidenza di alcune caratteristiche non all’impronta qualificanti della valutazione interna, non intendo comunque far opera di demonizzazione, come diffusamente accaduto diciamo all’incirca nell’ultimo quarto di secolo: in essa, infatti, non è difficile ravvisare anche valenze di buona, convincente caratura: l’incidenza nella sua caratterizzazione delle doti culturali dei docenti; la sua prossimità alle peculiarità espressive di ogni alunno, circostanza che ne fa anche sul versante emotivo una pratica“calda”, coinvolgente, rassicurativa, appunto per la vicinanza che essa consente tra docente e discenti; la sua adozione in modalità dinamica e flessibile; il pregio, già evidenziato, della sua tipologia di intervento in forma di intuizione (quando di tale attitudine di comprensione gli insegnanti sono adeguatamente dotati).

3. Nel lungo periodo in cui la valutazione interna l’ha fatta da padrona, perfino l’ipotesi di corredarla parzialmente con modalità di valutazione esterna suscitava un rifiuto indignato. Poi si è verificata una sorta di frana, di tsunami e la valutazione esterna è scesa impetuosamente in campo con piglio di invasione totalizzante: ecco, quindi, l’entrata in scena delle prove OCSE-Pisa, di quelle INVALSI, di altra matrice ancora, vogliose tutte di ritagliarsi uno spazio.

Siffatto ricorso a miriadi di valutatori esterni è proprio indispensabile, ha davvero apportato un miglioramento della funzione della scuola di tipo autenticamente innovativo? Non intendo intervenire in proposito con perentorietà: ma un margine di dubbio mi pare legittimato.

Quali sono i connotati con più immediatezza percepibili e con progressiva frequenza condivisi nelle pratiche della valutazione esterna? Essa ha configurazione quasi inevitabilmente comparativa, soddisfa a una sorta di concupiscenza della classificazione, mira a una standardizzazione delle modalità di controllo, nell’adesione fideistica alle quali, tra l’altro, non è irrilevante il rischio di banalizzazione. Essa, perlopiù, viene intesa come azione di natura oggettiva, diametralmente differenziata rispetto alla soggettività della valutazione interna. In tal modo caratterizzandola non si tiene però nel debito conto la circostanza, molto evidenziata dagli epistemologi del Novecento, che l’oggettività, come corrispondenza tra la realtà e la descrizione della stessa, è un mito nel quale pure si è confidato per secoli: in particolare nell’analisi degli apprendimenti scolastici l’oggettività sfugge inesorabilmente; nella migliore delle circostanze si può addivenire ad atteggiamenti adeguati di intersoggettività, sempre per altro esprimibili sotto il segno della ipoteticità, dell’eventualità, della probabilità.

La valutazione esterna, ancora, quasi senza scampo condizionata dagli strumenti con i quali essa viene agita, implica l’egemonia logica dell’«aut aut» (una risposta è o vera o falsa). Però, la pratica di una avvalorante e formativa cultura richiede che ci si comporti intellettualmente non escludendo il «vel» (cioè a dire ritenendo che una tesi possa essere congetturalmente anche vera e falsa in contemporanea, soprattutto nella sua natura di opinione) e neppure l’«et» (la eventualità che un discorso non sia ineluttabilmente oppositivo rispetto ad un altro ma che con lo stesso si possa efficacemente integrare per comprendere meglio la realtà). Ancora (ma i rilievi critici si potrebbero espandere ulteriormente) nella valutazione esterna è insidiosamente innestato il rischio di eterogenesi dei fini: ciò vuol dire che essa con forte propensione si può snaturare, trasformandosi da strumento per qualificare l’insegnamento alla subordinazione del medesimo alle sue invasive logiche.

4. Riservo una breve nota a questo punto - coerente con le idee fondanti dell’intera riflessione - alla proposta di una impostazione virtualmente pregnante ed equilibrata della problematica qui argomentata: un dimensionamento sobrio della valutazione, come consapevolezza concettuale ed operativa che è bene non sottostare passivamente alla sua pretesa di perentoria centralità, attivando una integrazione strutturale avveduta e controllata dei due versanti qui discussi della stessa, nei modi in cui tentano forse di porre in essere (con esiti però al momento ancora assai labilied evanescenti per quanto attiene alla vivificazione autentica del servizio scolastico) recenti disposizioni normative, il DPR n. 80/2013 e il Decreto Legislativo n. 62/2017. Ma, allo stato attuale dell’arte, vale a dire tenendo conto dell’accanimento generalmente riversato sulla valutazione scolastica, sono davvero evitabili fenomeni distorsivi quali l’eccessiva immanenza, il formalismo, il ritualismo, la costrizione istituzionale a una profusione esagerata di energie professionali nel giudizio delle prestazioni degli allievi e pure di se stessi in quanto docenti?

5. Proseguo la ricognizione facendo entrare in scena una avvertenza che ritengo fondamentale: la distinzione, concettuale e operativa, tra valutazione come controllo qualitativo e quantitativo degli apprendimenti (verifica, misurazione sono i termini con i quali essa è diffusamente designata) e come apprezzamento, manifestazione di giudizio. Per quanto concerne la prima declinazione essa risulta con pochi dubbi utile nella qualificazione della formazione, per la sua attitudine a fornire conoscenze atte a calibrare assiduamente al meglio la configurazione della formazione. Il secondo versante invece, che pure attrae e gratifica in certo senso legioni di insegnanti, non lo si può considerare sempre e senza discussione essenziale e indispensabile (sostenendo sommessamente la tesi appena delineata, sono ovviamente consapevole che nella vigente mentalità di gran parte degli operatori scolastici essa è congettura anche scandalosamente venata di paradossalità).

6. Metto adesso in rampa di lancio un’altra avvertenza che considero imprescindibile, la quale però fatica tuttora nel venire condivisa: la valutazione non dovrebbe mai pretendere di riferirsi alle personalità degli allievi, in maniera per dir così ontologica, esprimendo sui progetti di vita degli stessi previsioni categoriche e con facilità errate, sia di segno positivo che negativo, limitandosi rispettosamente e cautamente ad osservare prestazioni sempre contingenti, condizionate da una pluralità di fattori concomitanti quasi sempre fuor della conoscenza dei docenti valutatori, per lo più sfuggenti all’attitudine rivelativa della valutazione. In proposito può essere illuminativo un aneddoto relativo ad Albert Einstein scolaro di sette anni. È stato trovato un giudizio valutativo della sua maestra, che suona pressappoco così: “Albert è un bambino sempre distratto e con la testa tra le nuvole, poco interessato agli argomenti svolti a scuola. Non combinerà mai nulla di buono nella vita”.

7.Un accenno ritengo a questo punto non impertinente riservare a una modalità valutativa attualmente imperversante, quella delle prove di verifica. Esse sono ormai egemonicamente istituzionalizzate a legittimazione dei giudizi valutativi periodicamente previsti dalle norme. Si ottemperi pure a quanto al momento la legislazione richiede: ma è proprio necessario dare ad esse un peso sempre incombente e minaccioso, far percepire agli allievi che il loro stare a scuola dipende notevolmente dalla loro adeguatezza alle richieste delle prove di verifica, generare così anche effetti ansiogeni e di saturazione sia nei discenti che nei loro genitori (nonché negli insegnanti stessi)? Ad arricchimento, non reificazione polemica delle tipologie valutative al momento in auge, replico la convinzione che si dovrebbe avere buona coscienza del fatto che è qualificante il ricorso anche a una costante valutazione intuitiva, scevra da schematismi e da gabbie criteriali, intrecciata alla natura immediata e palese sia delle tipologie dell’insegnamento privilegiate che degli apprendimenti da esse indotti o almeno favoriti.

In chiusura: principio apicale al quale tutti i corresponsabili del sistema scolastico si dovrebbero attenere è che missione della scuola è l’insegnamento orientato alla formazione integrale delle persone che della scuola per diritto basilare si avvalgono, non già l’accertamento, con tratti in alcuni casi di maniacalità, degli apprendimenti probabilmente conseguiti. X

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